Guerra, pacifismo e percezione

L’idea di pacifismo non esiste più, se non nei circoli filosofici o letterari. È finita, almeno in Italia, in un giorno preciso, il 17 gennaio 1991, quando gli Stati Uniti iniziarono i bombardamenti sul Kuwait, invaso dalle truppe irakene di Saddam Hussein.

Ricordo bene quella mattina. Stavo ancora dormendo, nella mia casa da studente ormai quasi giunto alla alla fatidica laurea. Da giorni ormai sapevamo tutti che poteva accadere, ma ci aggrappavamo con tutte le forze alle poche possibilità rimaste che la situazione si risolvesse pacificamente, che qualcuno facesse un passo indietro.

La mattina molto presto qualcuno mi svegliò, dicendo solamente “hanno attaccato”.

La tv era accesa, vedevamo i lampi delle esplosioni, sembrava irreale, eppure era vero. Ci abbracciavamo piangendo. Nessuno di noi pensava che avrebbe dovuto vedere qualcosa di simile nel corso della sua intera vita. E tutto questo stava accadendo per decisione di un paese, o di un’organizzazione militare internazionale (la NATO), ma senza il mandato della comunità internazionale, senza l’autorizzazione delle Nazioni Unite. Era semplicemente inconcepibile, eppure stava accadendo.

Io e i miei compagni di studi percepivamo che quello era un cambiamento epocale. La guerra da tabù insuperabile come eravamo abituati a considerarla, era diventata un’opzione che qualcuno poteva scegliere per risolvere un problema.

Chi nel 1991 aveva almeno, diciamo, 20 anni, quindi chi, come me, è nato prima del 1971, ha ricevuto, nell’ambito scolastico e di solito anche familiare, un’educazione realmente pacifista. E non perché la gente ne fosse consapevole, ma perché l’idea pacifista, prima della guerra del golfo, era nell’aria, nel fondamento stesso della società. L’uso delle armi poteva da alcuni esserse considerato accettabile (c’erano terroristi e mafiosi e loro simpatizzanti anche tra la gente comune), ma quello che non si poteva accettare era che l’uso della forza fosse istituzionale. Non era la violenza in sé stessa a non essere accettata, era la guerra. E non era necessario scomodare gli intellettuali per trovare questo atteggiamento, perché si trovava dappertutto, in particolare nei libri di scuola e nel pensiero della gente comune. C’è una sottile, ma percepibilissima differenza, soprattutto in ambito educativo, sia familiare che scolastico. Dire a un bambino che la guerra potrebbe, in certi casi, essere giusta sarebbe stato strano quanto dirgli che in certi casi si può fare la cacca sul tavolo da pranzo. Nessuno aveva bisogno di pensare, era così e basta, faceva parte del patrimonio culturale della gente.

Le parole della costituzione, per fare un esempio, “l’Italia ripudia la guerra…” venivano prese per quello che erano. Nessuno avrebbe potuto pensare che mandare armi o militari in missione in una zona di guerra potesse essere considerato accettabile.

Chi ha vissuto in questa società, così diversa da questo e da tanti altri punti di vista da quella attuale, rimane sconcertato e stupito dal fatto che si possa prendere in considerazione l’idea di mandare armi ad un paese in guerra, e magari considerarsi comunque pacifisti.

La striscia e il tempo che scorre

Se si prende una striscia rettangolare di carta, meglio se “allungata” cioè con una dimensione molto maggiore dell’altra, e la si piega dolcemente su se stessa fino a far coincidere le due estremità, quella che si ottiene è una superficie che possiamo definire “cilindrica”. Con un po’ di colla o di nastro adesivo possiamo fermarla, in modo da poterla esaminare con calma.
Possiamo fare qualche semplice osservazione, assolutamente ovvia, per esempio:
la superficie ha due “facce”, nel senso che se immagino di trovarmi su una di esse e di voler passare sull’altra, sono costretto ad attraversare un “bordo”; Continua a leggere

La mia fiducia nella scienza

Quando, parlando con amici o conoscenti, qualcuno mi chiede se ho fiducia nella scienza (o altre domande dal significato più o meno simile), mi sembra a volte di sentire, nell’atteggiamento dell’interlocutore, una certa aria di critica, se non addirittura di sufficienza, quando rispondo di sì, che l’indagine scientifica è, a mio avviso, il mezzo più efficace a disposizione dell’umanità per cercare di avvicinarsi alla verità. Continua a leggere

La regina delle fosche Simplegadi

“Mai la nave Argo avrebbe dovuto volare attraverso le fosche Simplegadi verso la terra dei Colchi, né il pino, tagliato nelle gole boscose del Pelio, cadere per armare di remi le mani degli eroi che per Pelia andarono in cerca del vello d’oro”

Così inizia la tragedia “Medea” di Euripide, nella traduzione di Laura Correale (Universale economica Feltrinelli, I Classici, 1995). Una storia crudele e appassionante, alla quale mi sento legato da molti anni. Voglio precisare subito che non intendo in questo scritto fare una recensione o uno studio su questo argomento e tanto meno una critica (per questo ci sono persone molto più capaci di me, fuori e dentro questo blog), ma solo registrare alcune riflessioni che la lettura di questo testo mi suscita.

Maria Callas interpreta Medea nel film di Pierpaolo Pasolini

Maria Callas interpreta Medea nel film di Pierpaolo Pasolini

Il luogo dove si svolge la tragedia è Corinto, dove Medea e Giasone sono arrivati dopo la conquista del vello d’oro da parte di quest’ultimo, avvenuta in gran parte grazie alle arti magiche (e non solo) di Medea. Due episodi (precedenti l’azione della tragedia) descrivono il carattere di Medea:

il primo è l’uccisione del fratellastro, Absirto, il cui cadavere Medea farà poi tagliare in piccoli pezzi, che farà gettare in mare; tutto questo per costringere il padre Eete, che li stava inseguendo, a rallentare, per poterlo raccogliere e seppellire; in questo modo Medea riuscirà a salvare sé stessa e Giasone;

il secondo episodio è l’uccisione del Re di Iolco, Pelia, colpevole di aver usurpato il trono spettante a Giasone; Medea, dopo aver trasformato una pecora in agnello tagliandola a pezzi e bollendola in un calderone, convince le figlie di Pelia a sottoporlo allo stesso trattamento, allo scopo di donargli l’eterna giovinezza; ma quando sarà il momento di tirarlo fuori tutto intero (e giovane) dal pentolone, si rifiuterà di farlo. Continua a leggere

Riflessioni di un insegnante sui valori da trasmettere a scuola

Alcuni mesi fa Ho scritto queste riflessioni, suscitate da fatti di cronaca letti sul giornale (e non solo). Colgo l’occasione per pubblicarle nel blog.

Riflessioni sui valori sui quali fondare l’insegnamento nella scuola pubblica

Qualche giorno fa, all’entrata a scuola, in quei pochi minuti in cui ci si ritrova in sala insegnanti prima di andare in classe, ho avuto un breve scambio di opinioni con una collega sui valori che la scuola dovrebbe trasmettere agli studenti. Lei sosteneva che quelli relativi alla famiglia sono i valori da trasmettere, perché è in quel contesto che si sperimenta la solidarietà. L’argomento è stato per me oggetto di riflessione nel recente passato, così non ho dovuto pensare a lungo prima di rispondere. Ho detto che, a mio parere, questi valori non sono sufficienti a garantire basi solide sulle quali fondare la nostra attività d’insegnamento, e che il ruolo della famiglia nella formazione dei giovani è oggi fortemente sopravvalutato. Il suono della “campanella” ci ha avvertiti che era ora di iniziare il lavoro in classe, e così non abbiamo potuto continuare la discussione. Mi è rimasto, però, il desiderio di approfondire la mia riflessione, ed è per questo che sto scrivendo queste righe.

Un altro spunto per scrivere queste riflessioni Continua a leggere