cap. 2

Incontrai Leo Baeck (1873-1956) uno dei maggiori rappresentanti dell’ebraismo del Novecento. Fu Rabbino a Berlino dal 1912 fino alla sua deportazione nel campo di concentramento di Theresienstadt(1943). Sopravvisse alla Shoà e andò a vivere a Londra divenendo massimo esponente dell’ebraismo progressista. Insegnò quindi storia della religione in America e fondò il Leo Baeck Institute per conservare la storia degli ebrei di lingua tedesca. Fu autore del saggio di cui inserisco gli estremi per comprendere l’attenzione riservata alla lettura della figura di Gesù nel suo contesto storico ebraico.
Leo Baeck IL VANGELO: UN DOCUMENTO EBRAICO
Editrice La Giuntina, 2004

In questo saggio, pubblicato nel 1938, in piena dittatura hitleriana, Leo Baeck si pone un doppio obiettivo: reinserire i Vangeli nel loro contesto originale ebraico e rivendicare per le parole e le gesta di Gesù la loro reale fonte: l’autentica Tradizione ebraica. Baeck sostiene che l’insegnamento di Gesù, prendendo come base i Vangeli originali, non conteneva alcuna messa in discussione fondamentale dell’ebraismo, ma che fu soprattutto Paolo il responsabile della deriva antiebraica della Chiesa primitiva, colui che incarnò lo spirito pagano al punto da far trionfare il pagano-cristianesimo sul giudeo-cristianesimo. Leggendo questo libro, si ha come l’impressione che Baeck amasse il cristianesimo originale perché era ricco di nuove prospettive e si poneva come il crogiolo di un rinnovamento e non come un salto nell’ignoto. Il saggio è preceduto da un’ampia introduzione di Maurice-Ruben Hayoun che inquadra tutta l’opera di Leo Baeck nel contesto del pensiero ebraico-tedesco.
Un libro incredibilmente attuale che non mancherà di suscitare polemiche ma anche ammirati consensi negli ambienti più disparati – sia ebraici che cristiani – a cominciare da chi crede fermamente nel dialogo fra le religioni, e in particolare fra ebraismo e cristianesimo. Non basta, però, a illustrare questa nota che in realtà è un messaggio pubblicitario dell’editrice Giuntina. Il libro non lo comprerò, oltre perché non ho i soldi, anche perché non dice nulla del suo amore per le tragedie greche. Per il resto può essere però ai nostri fini, molto interessante. Ci dice una cosa essenziale di quest’ uomo . Fu deportato dal 1943, nel campo di concentramento di Theresienstadt di cui non so nulla, di cui devo documentarmi. Con Taubes e San Paolo ogni giorno ho ripensato l’Olocausto. Avrei voluto scrivere al Professore di quanto ho pianto, per tutti, per i bambini. E che sopravvivenza potrà aver avuto Josef Baech dopo essere stato tutti quegli anni nel luogo della morte, cosa sognava la notte, che pasticche prendeva? Io voglio pensarci tutti i giorni se no non vale, la vita non vale, il Paradiso non vale! Poniamo adesso che tutti quei bambini Dio li abbia posti in paradiso in un luogo cosi eccelso che San Paolo li guarda da lontano, ma perché non fare di tutto perché questo strazio termini? Infatti continua, lo sappiamo tutti che continua. Qualche volta sono così arrabbiata con Dio che mi pare di essere ad un millimetro dal perdere la fede, meno di in millimetro, un atomo, un quanto, una stringa parmenidea. Allora se ripenso a Parmenide e a quello che ho scoperto di Lui non riesco a non credere in Dio. Penso che è impossibile che Dio non ci sia e che se esiste avrà ragione Lui, sarà più bravo e infinitamente più intelligente di Me. Allora credo che mi dovrà dare spiegazione del baratro di ogni storia e che la sua spiegazione sarà la mia consolazione, sarà un abbraccio con lo Spirito Santo, il Paraclito in senso ovviamente greco.
Ora è necessario vedere cosa sia l’Haggadah, in ebraico, הגדה. L’haggadah è un racconto e il più importanti di questi racconti è l’Haggadah di Pesach un frammento di cui è stampato in questo disegno con un brano del libro dell’Esodo. Si tratta diun manoscritto del XIV sec. Anche noi cristiani leggiamo questo libro nell’ufficio delle letture della quaresima. Oggi si legge Es., 1.22. Oppressione di Israele in Egitto. Questi sono i nome dei figli di Israele entrati in Egitto con Giacobbe e arrivati ognuno con la sua famiglia: Ruben, Simeone, Levi e Giuda, Issacar, Zabulon e Beniamino, Dan e Neftali, Gad e Aser. In tutto le persone nate da Giacobbe erano settanta, Giuseppe si trovava già in Egitto. Giuseppe poi morì e così tutti i suoi fratelli e tutta la sua generazione. I figli di Israele prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto potenti e il paese ne fu ripieno. Allora sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe. E disse al suo popolo: <> Perciò vennero imposti agli ebrei dei sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli coi loro gravami e così costruirono per il faraone le città deposito cioè Pitom e Ramses. Ma quanto più opprimevano il popolo tanto più si moltiplicava e cresceva oltre misura; si cominciò a sentire come un incubo la presenza dei figli di Israele. Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli di Israele trattandoli duramente. Resero loro amara la vita costringendoli a fabbricare mattoni di argilla con ogni sorta di lavoro nei campi. E a tutti questi lavori li obbligarono con durezza.
Pare una casualità ma io sono sicura che non lo è anche se non so spiegare cosa significa.  Che la storia cominci proprio nel dolore e nella schiavitù anziché nella libertà e nella indipendenza, è un fatto che può dar luogo a molte riflessioni e che racchiude certo un grande significato; ma bisogna sapere fin da principio che la storia di Israele è diversa, molto diversa da quella degli altri popoli antichi, bisogna abituarsi a questa diversità, bisogna – direi – familiarizzarsi con le strane, talvolta eroiche tal altra tragiche vicende di questo popolo: è così perché deve essere così, perché così esige la funzione di Israele. Sono discorsi sulla Torà di Riccardo Pacifici un rabbino contemporaneo di Roma, si trova il sito in Internet lo può leggere chiunque.
Mi commuove e mi coinvolge e mi interroga e mi parla e basta. Siamo intorno al 1500 a.C., forse un po’ prima. Facciamo anche storia ma non adesso: devo parlare ancora insieme a Taubes di Leo Baeck. Il Nostro amico sottolinea come il suo libro più importante, Vom Wesen des Christentums fosse una risposta polemica ad Harnak. La principale caratteristica del libro, scrive e dice, è rappresentata dalla congiunzione ‘e’. Fede ‘e’ legge, sempre e solo ‘e’. Non ho molto a che spartire con questo atteggiamento ironico, ma è comunque significativo. Come vediamo e sentiamo, Taubes non lo condivide appieno però lo considera importante, considera importante probabilmente che si sia in qualche modo fermato a riflettere su questi illustri figli di Israele anche se Gesù e Paolo sono obiettivamente di più che semplici figli di Israele. Nota quindi esplicitamente che non ci sono stati degli altri espliciti studi ebraici su Paolo.
Nei momenti di pausa dalla letture celeste di Taubes mi capitò, però, in quei giorni qualcosa di veramente curioso, sì, mi capitò di ricevere, per il Natale, dei doni inaspettati tutti facenti capo al tono ebraico che avevano preso le mie letture in quei giorni. Mi trovai, per caso, ma il caso sappiamo che non esiste, ad incontrare il nome di Pinchas Lapide; solo per i Greci e tutte le loro diramazioni, il caso ha un ruolo centrale: se ancora per qualcuno il caso ha un ruolo centrale, vuol dire che costoro sono ancora Greci: la vita in ogni suo attimo ha sempre e mirabilmente senso! Ma noi non riusciamo a sapere tutto. So di non sapere diceva infatti un greco troppo illustre perchè io lo nomini. Codesto Signore Pincas Lapide (1922-1997) è stato console di Israele a Milano ma soprattutto ha insegnato Esegesi neotestamentaria in molte Università pubblicando libri che lo hanno visto protagonista del dialogo ebraico – cristiano. Leggendo passi dei suoi libri sembrerebbe che almeno certe frange di Israele si volgano ad un abbraccio col cristianesimo, in quel profetico cambiamento di opinione che Padre Renato tanto temeva quando ero a Gerusalemme. Mi disse, infatti, che egli non aveva alcuna intenzione neanche di provare a convertire un Ebreo e ripetendo San Paolo Romani 9-11: Poi sarà la fine! diceva sorridendo. Che straordinaria guida avemmo a Gerusalemme! Un Padre Passionista che rimane il più straordinario uomo di Dio che ho mai conosciuto e, purtroppo o per fortuna, ne ho davvero conosciuti tanti. E così avanti fino a sera.
Queste erano in media le mie giornate con il libro di Taubes, colme di incontri e di personaggi che è limitato dire affascinanti, mai nessuno, però, come il mio amato, che era stato la reale ed unica causa di tutto. Taubes intanto sembrava commentare questo ‘tutto’ scrivendo ad alta voce: ‘Tutto ciò non mette però in discussione il fatto che Paolo non sia ancora stato effettivamente recepito dalla storia della religione ebraica’. A questo punto ci ritrovammo sulla stessa prorompente personalità che anche Taubes nominava quasi con timore e tremore: Il più importante libro ebraico su Paolo è Zwei Glaubensweisen di Martin Buber, un testo polemico ma scritto con profonda convinzione. Ora la mia atavica pigrizia si precipitò ad inserire una scheda trovata su Internet che mi sembrava degna di essere copiata in toto: quest’azione malsana, foriera di ogni sorta di potenziale accusa di svogliatezza, mi rese più leggero anche l’approccio con Buber che in verità mi sembrava un filosofo di grandissimo interesse soprattutto per la sua teoria della “relazione”: Solo al declinare del secolo appena trascorso la cultura filosofica del nostro paese ha riconosciuto la statura filosofica di Martin Mordechai Buber come attestano, tra l’altro, l’ampliarsi della letteratura critica che lo riguarda e le recenti riedizioni di alcuni suoi libri. Nei paesi anglosassoni gli studiosi di filosofia e teologia – nonché di ambiti disciplinari quali la pedagogia, la psicologia e la sociologia – hanno invece tributato, già molti anni prima, grande attenzione all’opera di questo autore che, nelle parole di Reinhold Niebhur, è stato “testimone di quella verità che è richiesta dall’anima non come essere solitario, ma socievole”. La riflessione di Martin Buber ha un valore che regge bene alla prova del tempo: i suoi libri sono e resteranno ancora altrettanti “rimandi” (Hinweise) alla relazione con il tu umano e con l’Eterno. È questa a costituire per lui l’unum necessarium, la realtà prima e ultima che dischiude all’uomo il senso. Buber è senz’altro tra i più autorevoli filosofi del Novecento che hanno inteso dire “cose nuove con le vecchie parole ebraiche”, per ricorrere a una espressione cara al suo amico Franz Rosenzweig. Il pensiero dialogico, invero, trae alimento proprio dall’universo di senso dischiuso dalla Bibbia, intesa quale storia della “difficile” relazione che l’Eterno instaura con l’uomo. Si tratta di un dialogo reale, e pertanto esposto al rischio dell’infedeltà da parte di quel partner, proclive al tradimento e al rifiuto, che è la creatura umana. Il pensiero buberiano dispiega la sua attitudine dialogica in un amplissimo ambito di problemi; in particolare, la riflessione sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo impegna l’autore per lungo tempo, fin dai primi anni del Novecento. Il libro qui proposto – Zwei Glaubensweisen  ovvero “Due tipi di fede”, nella edizione italiana del 1995 curata da Sergio Sorrentino – costituisce la sintesi di tale riflessione. Esso fu pubblicato originariamente nel 1950, ottenendo una notevole fortuna editoriale nei paesi di lingua inglese. Il saggio, concepito come un contributo filosoficamente rigoroso al chiarimento della differenza tra le due fedi, ha trovato critici attenti e talora severi, prima che all’interno dell’ebraismo, in alcuni eminenti filosofi e teologi cristiani. Molto diverse sono state le valutazioni espresse dagli studiosi circa il valore scientifico della tesi fondamentale dell’opera, secondo la quale i due “tipi” o “generi” (Weisen) esclusivi in cui si modula la fede – “l’avere fiducia in Qualcuno” e “il ritenere per vero qualcosa” – sono rappresentati nella storia, rispettivamente, dalla fede ebraica, ovvero dalla emunà in ebraico, e da quella cristiana, che per l’Autore è pístis, in greco. La tesi che informa il libro si presta invero a rilievi di varia natura, segnatamente sul piano filologico e storico. Tuttavia, al di là delle critiche che si possono avanzare al riguardo, esso resta una testimonianza di grande coraggio intellettuale: Buber affronta il problema del rapporto tra ebraismo e cristianesimo a pochi anni da Auschwitz. La emunà ebraica è, nella prospettiva dell’Autore, testimoniata da figure quali Abramo, Mosè, Giobbe, ed è al fondo della fede di Gesù di Nazareth. Buber vuole porre in rilievo l’essere ebreo di Gesù, la cui predicazione, nel fare appello alla decisione – alla conversione – segue autenticamente la linea tracciata dalla fede dei profeti. La caratterizzazione vivida che Buber offre della figura di Gesù costituisce il secondo nucleo fondamentale dell’opera.
Il terzo motivo di interesse del libro va ravvisato nel tentativo di rintracciare la genesi della differenza tra le due fedi, gli eventi e le figure storiche all’origine della diastasi tra emunà e pístis. All’inizio della seconda non è per Buber il Gesù storico, che permane nella emunà, ma sono l’evangelista Giovanni e, soprattutto, l’apostolo Paolo. Pur se la riflessione proposta in Due tipi di fede evidenzia dei limiti in ordine alla comprensione del cristianesimo quale “fede dialogica”, va apprezzato l’esito della ricerca buberiana, condotta nella consapevolezza che le due fedi debbano rivolgersi mutuamente la parola, soprattutto nei periodi di crisi spirituale, in quanto “hanno bisogno” l’una dell’altra.
Io so che verrà un giorno in cui la mia piccola mente conoscerà perfettamente e potrà attingere direttamente al testo di Buber, forse anche in tedesco, perché no? Ma per ora, in questa precaria finitudine, mi accontento di conoscere cosi anche se due parole su la differenza tra emunà e pistis le devo spendere.
Pistis è, a detta di Ravasi,c una delle parole chiave della Lettera ai Romani, la fede che allargando le braccia con un atto libero e sovrano verso la xaris che arriva all’uomo per lo Spirito Santo, pone le fondamenta della dikaiosune, punto di svolta della salvezza del Vangelo.
Secondo l’ebraismo, la traduzione corretta della parola emunà è fedeltà e lealtà che non ha niente a che vedere con la fede o il credo. La fede viene concepita come qualcosa di personale, è una creazione della mente che non può essere dimostrabile, non raggiungibile. La fede è irrilevante riguardo a ciò che può essere dimostrato logicamente. Infatti, si riferisce all’ignoto e per questo motivo la si definisce cieca.
Non mi accontenterò di certo in questo modo; ma per ora, per tutto il tempo, cioè, in cui sono costretta agli arresti domiciliari, ci serviremo di infimi sistemi nella speranza di riuscire anche a nobilitarli! Parlavamo di due tipi di fede, tertium non datur. Riporto qui una frase di Martin Buber che veniva a confermare il mio convincimento profondo riguardo alla inesauribile ricchezza che sono l’uno per l’altra fede ebraica e fede cristiana:
«La fede dell’Ebraismo e la fede del cristianesimo
sono, nel loro rispettivo genere, differenti…
e lo rimarranno fino a che il genere umano
non verrà radunato dall’esilio delle “religioni”
nel Regno di Dio.
Ma un Israele e un Cristianesimo che si sforzassero
di rinnovare la propria fede…
avrebbero da dirsi l’un l’altro cose che non si sono mai detti
e da prestarsi l’un l’altro un aiuto
che oggi è appena immaginabile.»
(Martin Buber), Due tipi di fede,Fede Ebraica e fede cristiana, S. Paolo, 1995. Il libro incredibile dictu fu tradotto in italiano 50 anni dopo la sua edizione a Zurigo nel 1950.In questo senso potrebbe essere data una terza via,, nella possibilità di rinnovarsi dicendosi l’un l’altro quel che non ci si è mai detti e prestandosi un aiuto. Come potrebbe avvenire tanto audace progetto? La presenza di Paolo di Tarso diviene a questo punto essenziale in questo quartetto che il piccolo libro su Atene ha costituito…Rm 5, 1-2; Così dunque, giustificati per la fede noi siamo in pace con Dio, grazie al Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale abbiamo ottenuto di avere accesso, per fede, a questa grazia nella quale ci troviamo e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio.

2 pensieri su “cap. 2

  1. Ho visto il campo di concentramento di Terezin a pochi chilometri da Praga. Vicino c’è il ghetto dove sono transitati oltre 15000 bambini, lì è esposta una collezione di disegni di bambini internati. Al ritorno dal viaggio ho fatto molti strani sogni, in uno le pareti della basilica superiore di san Francesco ad Assisi erano tappezzate di quei disegni e io nel mio comune lavoro di guida li mostravo e li spiegavo alle mamme, una non trovava i disegni di sua figlia e era disperata, un’altra le rispondeva che era malata e i malati restavano indietro…
    Galleria dei disegni e info in vari siti.
    http://digilander.libero.it/teatroecontorni/terezin/index.htm
    http://www.lager.it/ghettoterezin.html

    C’è nel film Cento chiodi di Ermanno Olmi, una battuta che dice qualcosa di simile a quello che dici tu a proposito di Dio: se veramente esiste dovrà darci delle spiegazioni.

  2. La nostra cultura è profondamente più ebraica di ciò che immaginiamo. Perché è una cultura cristiana. Se dalla cultura classica abbiamo ripreso certe categorie culturali, da quella ebraica molto di più: abbiamo ripreso ciò per cui tanti europei hanno dato la vita: la religione. Siamo più discendenti dagli ebrei che dagli antichi romani.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *