La regina delle fosche Simplegadi

“Mai la nave Argo avrebbe dovuto volare attraverso le fosche Simplegadi verso la terra dei Colchi, né il pino, tagliato nelle gole boscose del Pelio, cadere per armare di remi le mani degli eroi che per Pelia andarono in cerca del vello d’oro”

Così inizia la tragedia “Medea” di Euripide, nella traduzione di Laura Correale (Universale economica Feltrinelli, I Classici, 1995). Una storia crudele e appassionante, alla quale mi sento legato da molti anni. Voglio precisare subito che non intendo in questo scritto fare una recensione o uno studio su questo argomento e tanto meno una critica (per questo ci sono persone molto più capaci di me, fuori e dentro questo blog), ma solo registrare alcune riflessioni che la lettura di questo testo mi suscita.

Maria Callas interpreta Medea nel film di Pierpaolo Pasolini

Maria Callas interpreta Medea nel film di Pierpaolo Pasolini

Il luogo dove si svolge la tragedia è Corinto, dove Medea e Giasone sono arrivati dopo la conquista del vello d’oro da parte di quest’ultimo, avvenuta in gran parte grazie alle arti magiche (e non solo) di Medea. Due episodi (precedenti l’azione della tragedia) descrivono il carattere di Medea:

il primo è l’uccisione del fratellastro, Absirto, il cui cadavere Medea farà poi tagliare in piccoli pezzi, che farà gettare in mare; tutto questo per costringere il padre Eete, che li stava inseguendo, a rallentare, per poterlo raccogliere e seppellire; in questo modo Medea riuscirà a salvare sé stessa e Giasone;

il secondo episodio è l’uccisione del Re di Iolco, Pelia, colpevole di aver usurpato il trono spettante a Giasone; Medea, dopo aver trasformato una pecora in agnello tagliandola a pezzi e bollendola in un calderone, convince le figlie di Pelia a sottoporlo allo stesso trattamento, allo scopo di donargli l’eterna giovinezza; ma quando sarà il momento di tirarlo fuori tutto intero (e giovane) dal pentolone, si rifiuterà di farlo.

Quando Medea arriva a Corinto, moglie di Giasone (è qui che inizia la storia narrata da Euripide), ha rotto i ponti con le sue origini, con la sua famiglia, con la sua terra, con il suo passato. Si è negata qualsiasi possibilità di tornare indietro, e tutto per amore (o per passione, scegliete voi). Ma Giasone, portatore dei valori della civilizzata Corinto, decide di ripudiare la maga (oggi diremmo strega, forse), dalla quale ha avuto dei figli, che proviene dall’incivile Colchide, per poter sposare la figlia del Re, e così aspirare al trono. La vendetta di Medea è di una crudeltà quasi inimmaginabile. Si finge sottomessa, chiede di poter fare un dono alla sposa e confeziona un mantello bellissimo. Ma quando la sposa lo indossa, compiacendosi della sua immagine riflessa in uno specchio, il veleno di Medea fa effetto e la giovane sposa muore, con la testa e il corpo avvolti dalle fiamme. Il Re Creonte, che entra e vede il cadavere della figlia, lo abbraccia, ma per effetto del veleno non può più staccarsene e dopo aver cercato invano di liberarsi, con il manto che gli strappa la carne dalle vecchie ossa, muore. Si potrebbe pensare che questo sia sufficiente, ma la vendetta più atroce deve ancora venire. Perché Medea, alla notizia della morte della sposa e del Re, prende la spada e, pur con grande sofferenza, uccide i suoi amati figli, che sono anche figli di Giasone, incurante dei loro lamenti e delle loro preghiere, per rendere ancora più atroce la pena del marito traditore.

Immagine di Medea che uccide uno dei figli su un'anfora conservata al Louvre di Parigi

Anfora conservata al museo del Louvre a Parigi

Si potrebbe paragonare Medea a una belva, ma credo che saremmo fuori strada. Le belve uccidono, certo, ma solo animali di altre specie, e comunque non certo i loro stessi cuccioli. Magari si potrebbe chiamare Medea “madre snaturata”, ma anche questo sarebbe sbagliato, perché, al contrario, Medea segue fino alle estreme conseguenze la sua natura ctonia, di maga legata alla terra più che al cielo, e all’oscurità più che alla luce.

Quello che mi affascina di questa storia e della cultura dalla quale è nata (per quel poco che posso capirne) è proprio l’assenza di una contrapposizione manichea tra bene e male, così tipica della nostra società e delle nostre religioni. Medea non è buona né cattiva. Medea è quello che è.

Questo non significa, naturalmente, che tutti i comportamenti sono accettabili, a patto che siano connaturati a chi li compie. Le società umane hanno il diritto e il dovere di difendersi da quei comportamenti che potrebbero portare alla loro disgregazione, e di stabilire quali sono i comportamenti accettabili e quali no. Certamente non sarei così entusiasta della Medea di Euripide se fosse un resoconto giornalistico, anziché una storia di fantasia.

Quello che voglio dire è che il personaggio Medea, come tutti i personaggi del mito, ci interroga profondamente su quello che siamo, “fotografando” un aspetto del nostro “essere esseri umani”. Accettare questo aspetto (e gli altri), saperlo leggere e poi fare scelte consapevoli è più utile che negare ciò che non ci piace pensando “da domani sarò migliore”.

5 pensieri su “La regina delle fosche Simplegadi

  1. E’ sicuramente emozionante leggere il mito, come tu ce lo racconti. Grazie, Marco.
    Sull’aspetto etico “Le società umane hanno il diritto e il dovere di difendersi da quei comportamenti che potrebbero portare alla loro disgregazione, e di stabilire quali sono i comportamenti accettabili e quali no”, non c’è niente da aggiungere a quanto tu affermi.
    Ma il mito, come tu giustamente ci fai notare, è al di là del bene e del male; d’altronde, proprio per questo, può avere una funzione terapeutica. Ci può fare elaborare le nostre pulsioni nascoste, come la nostra aggressività: chi di noi non ha mai “sentito” – magari in una parte ben nascosta di noi – la voglia di fare a pezzetti il proprio nemico?
    Il mito ci consente di elaborare la parte oscura, la parte ombra di noi, che purtroppo è assai malvagia. D’altronde, non esiste il giorno senza la notte, per cui se è vero che riusciamo eticamente a tenere a bada la parte oscura per la salvezza della comunità oltre che di noi stessi, è anche vero che il sapere che esiste e poterla elaborare ci consente di avere una visione completa di noi stessi e delle nostre sofferenze.
    Penso infatti che la mente malvagia sia una mente sofferente. Ad es., Medea poteva usare i suoi poteri magici a fin di bene; ma era troppo condizionata dall’egoismo del suo amore passionale per Giasone, così come dal potere (quasi infinito) che tali mezzi magici sembravano potergli dare.
    La brama passionale e la brama di potere (che sono molto attuali, per la verità) sembrano essere fattori di felicità dell’individuo. In realtà, possono essere fattori di grande sofferenza, in noi e negli altri, perché producono conflitti, invidie, gelosie. Medea pensava di poter tenere tutto sotto controllo con le sue arti magiche, in realtà distruggeva il mondo attorno a sé, le persone, i sentimenti.
    Anche noi, nella nostra vita quotidiana, possiamo usare meglio i nostri “mezzi magici”, per ridurre odi, conflitti, guerre personali. La parola è sicuramente uno di questi mezzi magici: non ha una funzione solo logica, razionale, ma può anche rappresentare un potente strumento di condivisione di sentimenti ed emozioni.
    Saper comunicare in maniera pacata e non violenta, fare un uso equilibrato del giudizio, saper ascoltare e rispettare le ragioni e i sentimenti dell’altro, conoscere meglio sé stessi per non proiettare sugli altri le nostre inquietudini e la nostra parte oscura.
    Tutte queste cose fanno parte di un percorso di riconoscimento ed elaborazione della Medea che c’è in noi: perché c’è anche lei in noi… è inutile negarlo.

  2. Grazie Stefano per il tuo commento, come sempre profondo e interessante. Sono d’accordo con te nell’essenziale, ma non su un punto. Non credo infatti che possano essere associate a Medea, o in generale ai personaggi del mito, qualità come la malvagità o l’egoismo. Non so se fraintendo il significato di quello che hai scritto, ma credo che queste qualità sarebbero più che adeguate per una Medea essere umano che decidesse per vendetta di uccidere i suoi stessi figli, ma non per un personaggio mitologico.
    Il mito, e quindi anche Medea, per come lo vedo io, non è razionale, è la pulsione nascosta nel profondo di noi stessi, che razionalmente, e anche emotivamente, teniamo a bada quando non è adeguata alla situazione in cui ci troviamo. Medea non è razionale né irrazionale (nel senso, ad esempio, di folle), perché è pre-razionale. Il suo personaggio, come tutti i miti, fa vibrare corde il cui suono non può essere udito “mediato” dalla razionalità, ma solo direttamente per quello che è.
    Se una madre tradita pensasse per un breve attimo di uccidere per vendetta i suoi figli, per poi scacciare inorridita quel pensiero, nessuno di noi la condannerebbe. Io credo che Medea sia esattamente quell’attimo, in cui l’impensabile affiora dal profondo di noi stessi. Io credo che Medea sia il pensiero di quel bambino che chiede alla mamma se può mettere il fratellino neonato nel forno, perché gli ha “rubato” l’esclusiva dell’affetto di lei. È evidente che non lo chiederebbe se avesse già sviluppato un senso più adulto di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, ma nessuno di noi lo condanna per questo. Eventualmente cercheremo di fargli capire che non può farlo.
    Per questo Medea non può non uccidere i suoi figli, anche se qualsiasi essere umano mai e poi mai potrebbe farlo. Medea non può usare le sue arti magiche a fin di bene, perché questo non è nella sua natura e per lo stesso motivo non può sottrarsi al suo amore e alla sua passione.
    Per finire: Medea è l’aspetto oscuro, mortifero delle nostre pulsioni, ma non dubito che esista un aspetto luminoso, che forse alcune persone eccezionali (certi santi, certi saggi o mistici, ecc.) sanno coltivare. Non necessariamente l’impensabile deve essere ombra, può anche essere luce, ma non sarà Medea a insegnarcelo.

    • Sono d’accordo con te sulla natura prelogica e astorica del mito. Il fatto che sia astorico non significa però che non possa essere umanizzato: altrimenti come faccio ad entrarci in relazione?
      In fondo, il mito è soprattutto un racconto: che possiamo ascoltare, assimilare, modificare, ricreare, a nostro uso e consumo. Il mito è la rappresentazione di modelli o archetipi, che possono attivare la nostra immaginazione e farci elaborare personaggi, situazioni, sentimenti, conflitti, ecc.
      Credo quindi, che proprio per queste caratteristiche, possiamo vivere la forza di questi simboli e cercare di sentirne gli effetti sulla nostra vita quotidiana. Tale elaborazione l’ho definita terapeutica, perché può farci stare meglio – più in equilibrio con noi stessi e con il mondo -, ma potrebbe essere anche vista come una elaborazione artistica, ad esempio. O, magari, spirituale.
      Umanizzare il mito significa fare sì che il mito si impossessi in qualche modo di noi e che attivi un processo di trasformazione. E’ un po’ come quando tu dici che Medea è “una storia crudele e appassionante, alla quale mi sento legato da molti anni”: il fascino oscuro che questa storia ha avuto per te mi sembra appunto un elemento di elaborazione ed umanizzazione.
      E’ evidente che la storia è crudele poiché lo è il personaggio principale, Medea. Io l’ho definita malvagia, ma non mi sembra una gran differenza. E ho cercato poi di elaborarne alcune caratteristiche, così come per me evidenzia la storia. E’ chiaro che non giudico in assoluto la natura di Medea, ma sviluppo un mio punto di vista. Non mi interessano il bene e il male in assoluto, ma le sento come due facce della stessa medaglia.
      Mi interessa in particolare l’aspetto crudele/cattivo/malvagio come sete di controllo e potere sulla realtà: l’ho chiamata bramosia. Questa sete di potere è – al di là del mito – molto umana; oso dire che è anche dannosa, poiché produce sofferenza.
      Penso, a differenza di te (mi sembra), che possiamo creare degli anticorpi affinché questa parte di noi non prenda il sopravvento. Non è una questione etica, di comportamento corretto da suggerire a Medea, ma di valori (non-violenti) che possiamo coltivare, proprio perché siamo umani e, a differenza degli animali, possediamo la consapevolezza del nostro destino.

  3. Caro Marco, ho aspettato a scrivere qualcosa su questo post. Il tema è per me duro e provoca scontri e conflitti in me, come in molti.
    Ho cercato di informarmi qua e là e mi ero già resa conto che esistono diverse versioni del mito e, a mio parere il lato umano, storico, contestualizzato del mito è pure un po’ questo, come lo si tramanda, cosa se ne coglie da parte di chi lo legge e lo racconta e lo tramanda (tradisce) e ne fa risuonare (che sia Euripide, o ciascuno di noi, che siano le varie epoche storiche con la propria sensibilità e il proprio immaginario).
    Leggerò Euripide e anche approfondirò meglio. Maledetta ignoranza e… potessi avere tempo e memoria.
    Per ora segnalo che ieri è morta una scrittrice tedesca che aveva scritto una sua Medea. Con la lettura di articoli su di lei ho ripreso il mio lento e circospetto e difficile approccio a questo mito. Per ora non mi sento in condizione di dire altro, propongo un link a un articolo su questo libro di Christa Wolf.
    http://www.griseldaonline.it/formazione/medea_varotti.htm

  4. Carissimo
    si coglie il tuo amore inveterato per questa tragedia dal tuo interessante scritto. Per quanto riguarda la questione del bene e del male, mi permetto solo di segnalare che i Greci avevano altri modi di approcciare il reale e che per loro tutto era piuttosto sottoposto alla ferale necessità, l'”ananche”Ἀνάγκη, la quale ancor più del fato dei romani anche se in modo simile, dava relativo spazio alla personale iniziativa. Erano gli dei e il destino a determinare la vita degli uomini. Tutto ciò per gran parte dell’epoca arcaica e classica, sino a Platone che nella Repubblica, col mito di Er, ribalta in modo decisivo la situazione.
    ORa è l’anime, in greco,psichè, a scegliere il proprio destino nell’ambito di possibilità offerto dagli dei. La scelta può essere fatta secondo virtù e il comportamento di ogni anima sarà valutato dopo la morte da giudici che potranno inviare l’anima nei cieli a godere della beatitudine eterna oppure nei profondi recessi della terra oscura. QUesti status non sono eterni ma dopo un certo numero di anni il ciclo riprende e le anime vengono rimandate sulla terrra. Solo alcuni particolarmente catttivi rimango per sempre nelle zone sotteranee.
    Prima di tornare sulla terra le anime possono scegliere il tipo di virtù da praticare e coltivare nella nuova vita. La scelta è effettuata con sorteggio. I primi a scegliere ottengono le situazioni migliori comunque per le anime non c’è mai un regresso morale ma solo eventualmente materiale.

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