il viaggio ‘oltre’ di Parmenide

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4. Verso una conclusione
Con il presente saggio si è inteso esplorare la trasfigurazione simbolica (sc.culturale) del corpo nelle varie esperienze ultramondane legate a mediatori ditipo «sciamanico» (nel senso eliadiano del termine, oggi al centro di un vivacedibattito
96
), attestate in alcune culture del Mediterraneo antico. Se la
 praxis
 rituale viene oggi
a ragione considerata come l‟asse portante del fatto religi
o-so antico, per cui è quasi impossibile pensare il religioso senza interrogarsisulle sue ricadute per quanto concerne la corporeità dei membri che ne metto-no in pratica i vari rituali, è altrettanto vero che, proprio per la sua centralità inquanto strumento di attuazione della
 praxis
, e quindi indicatore di cultura, ilcorpo assume un ruolo fondante nella stessa dimensione cosiddetta
simbolica
dell‟esperienza del mediatore di tipo sciamanico, colu
i che
 –
per definizione
 –
 sembra spogliarsi della sua corporeità per raggiungere la dimensione
dell‟«assolutamente altro», l‟aldilà.
I casi analizzati ci permettono di giungeread alcune conclusioni, ovviamente assolutamente provvisorie e preliminari.
L‟es
perienza del viaggio ultramondano è attestata in moltissime culture, siaantiche che moderne; se tale trasversalità non può più portare verso una sem-plicistica fenomenologia della «rivelazione estatica», ciò non ostante può sug-gerire una comparazione circa il ruolo che la pratica si trova ad assumere in
sistemi culturali diversi, in modo da valutarne la funzione all‟interno di sing
o-li gruppi e società. Proprio attraverso il procedimento comparativo così comeoggi praticato negli studi storico-religiosi
97
, abbiamo cercato di rilevare come
96
A titolo meramente esemplificativo cfr. A. Saggioro (a cura di),
Sciamani e sciamanesimi
,Carocci editore, Roma, 2010.
97
Sintetizzare l‟attuale d
ibattito in merito alla comparazione storico-religiosa è pressoché im-possibile. Per una sintesi abbastanza esaustiva, cfr. G. Filoramo-N. Spineto (a cura di),
 La sto-ria comparata delle religioni
, numero monografico di “Storiografia”, 6, 2002. Basti segnalare,in questa sede, l‟attenzione alla comparazione attualmente al centro dell‟approccio cognitivista
(cfr. J.A. van der Ven,
 Reflective Comparativism in Religious Research: A Cognitive Approach
,in H.-G. Heimbrock-C.P. Scholtz [eds.],
 Religion: Immediate Experience and the Mediacy of  Research. Interdisciplinary Studies in the Objectives, Concepts, and Methodology of Empirical Research in Religion
, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 2007, pp. 77-1
14), e l‟importanza
che rive
ste il metodo comparativo nella psicologia, nella sociologia e nell‟antropologia delle
religioni (cfr. la sintesi e i riferimenti bibliografici in G. Filoramo,
Che cos’è la religione. Temi,
metodi, problemi
, Einaudi, Torino, 2004, pp. 133-
149; per quanto concerne l‟antropologia delle
religioni, cfr. anche E. Comba,
 Antropologia delle religioni. Un’introduzione
, Laterza, Roma-Bari, 2008). Per una ricca documentazione bibliografica in merito si vedano anche P. Scarpi,
Sistemi religiosi, storia, intercultura
, in A.F.M. Miltenburg (a cura di),
 Incontri di sguardi. Sa-
 peri e pratiche dell’intercultura
, UniPress, Padova, 2002, pp. 187-192; G. Sfameni Gasparro (a
27
il viaggio nell‟oltre
mondo, all‟interno dei sistemi culturali oggettodell‟indagine, emerga soprattutto come un meccanismo intrinsecamente
 pole-mico
, forse in risposta al rifiuto di una tradizione antecedente o coeva in cui èmassimamente sfruttata la modalità profetica del dialogo tra veggente e me-diatore e/o dio stesso. Sulla base di una comparazione «a largo raggio», è e-merso che i resoconti di rivelazione, sia quelli che si dichiarano espressione di
un‟esperienza estatico
-profetica, sia quelli che sono detti provenire da
un‟osservazione
autoptica
dell‟al di là, vanno analizzati, per quanto concerne
le culture antiche, non come meri «fatti letterari», ma come vere e proprie
 pratiche culturali
volte alla costruzione di una autorità. Ciò non toglie che ilprocesso della scrittura entri, in maniera assolutamente decisiva, anche nelprocesso di formazione e consolida
mento dell‟autorità visionaria così comeattestata in alcuni ambiti del mondo antico (siamo sempre nell‟ambito di
gruppi colti in cui
 potere
e
scrittura
di fatto coincidono). Da qui la differenzacon alcune popolazioni di interesse c.d. etnografico, dove il processo della
scrittura non è elemento centrale ai fini della definizione dell‟autorità vision
a-ria e/o sciamanica
98
.Dichiarare di
aver visto
con il proprio corpo, non semplicemente di
 parlare per
,
 può
contribuire a determinare lo
status
eccezionale di un veggente in se-no al suo contesto socio-culturale. Tale
status
 può
essere ulteriormente ampli-
ficato se l‟ambiente
in cui si dipana il discorso visionario riconosce come
soli-te
, o
normative
, altre modalità estatiche,
in primis
la provenienza del discorsodel veggente da un contatto
interno
e/o meramente
recettivo
con la divinità. Inaltri termini, dichiarare di aver parlato
in terra
con il dio, o di essere da lui
 posseduto nell‟al di qua,
 può
rappresentare un motivo di conflitto all‟interno
di alcuni sistemi religiosi e culturali
99
; tale conflitto si concretizza nella prete-
cura di),
Themes and Problems of the History of Religions in Contemporary Europe
.
Procee-dings of the International Seminar Messina, March 30-31, 2001
, Edizioni Lionello Giordano,Cosenza, 2002; G. Casadio,
Storia della religione greca e storia comparata delle religioni: Brelich (1975/1985); Vernant (1987/1990); Bremmer (1994/2001)
, Postfazione a J. Bremmer,
 La religione greca
, Edizioni Lionello Giordano, Cosenza, 2002, pp. 157-175; Id.,
Studying Re-ligious Traditions Between the Orient and the Occident: Modernism vs. Post-modernism
, in
Unterwegs. Neue Pfade in der Religionswissenschaft. Festschrift für Michael Pye zum 65. Ge-burtstag = New Paths in the Study of Religions. Festschrift in honour of Michael Pye on his65th Birthday
, Biblion, München, 2004, pp. 119-135; P. Clemente-C. Grottanelli (a cura di),
Comparativa/mente
, Seid Editori, Firenze, 2009.
98
Sul tema della visione sciamanica, recentemente cfr. L. de Heusch,
Con gli spiriti in corpo.
Transe, estasi, follia d’amore
, Bollati Boringhieri,Torino, 2009.
99
In questi enunciati ho volutamente utilizzato il verbo
 potere
, dato che in un sistema sociale lareazione rispetto a fenomeni visti come elusivi o devianti rispetto alla norma può indirizzarsi sumolteplici fronti di azione. Certamente può verificarsi il rifiuto, che talvolta può assumere le
forme della persecuzione o dell‟apert
o contrasto; altre volte può sorgere la spaccatura, per cui
28
sa di altri, i quali dichiarano di essere ascesi
direttamente nell‟al di là e di aver
visto
in prima persona
l‟oltre
-mondo. In tale quadro, il corpo rappresenta il
luogo
che contende il primato dell‟autorità visionaria, il recesso che lo cust
o-disce e lo evidenzia, quel microcosmo simbolico in cui la capacità del visiona-rio è testata e grazie al quale attende il riconoscimento
dovuto
.
alcuni membri del contesto decidono di unirsi all‟individuo considerato dalla maggioranza c
o-me elusivo o deviante. Tali risposte dipendono, il più delle volte, dalla composizione del siste-ma socia
le, o dalle dialettiche presenti al suo interno, raramente sono il frutto dell‟azione di un
singolo. A ciò si unisca che il conflitto rappresenta il collante fondamentale di un sistema socia-le: spesso è attra
verso il conflitto che l‟identità di un gruppo s
i autodefinisce.

ἵπποι ταί με φέρουσιν le cavalle che mi portano…testo greco dei frammenti

DK B1
ἵπποι ταί με φέρουσιν, ὅσον τ΄ ἐπἱ θυμὸς ἱκάνοι,
πέμπον, ἐπεί μ΄ ἐς ὁδὸν βῆσαν πολύφημον ἄγουσαι
δαίμονος1, ἣ κατὰ 2 φέρει εἰδότα φῶτα·
τῇ φερόμην· τῇ γάρ με πολύφραστοι φέρον ἵπποι
[5] ἅρμα τιταίνουσαι, κοῦραι δ΄ ὁδὸν ἡγεμόνευον.
ἄξων δ΄ ἐν χνοίῃσιν ἵ3 σύριγγος ἀυτήν
αἰθόμενος ‐ δοιοῖς γὰρ ἐπείγετο δινωτοῖσιν
κύκλοις ἀμφοτέρωθεν ‐, ὅτε σπερχοίατο πέμπειν
Ἡλιάδες κοῦραι, προλιποῦσαι δώματα Nυκτός4
[10] εἰς φάος, ὠσάμεναι κράτων5 ἄπο χερσὶ καλύπτρας.
ἔνθα πύλαι Νυκτός τε καὶ Ἤματός εἰσι κελεύθων,
καί σφας6 ὑπέρθυρον ἀμφὶς ἔχει καὶ λάινος οὐδός·
αὐταὶ δ΄ αἰθέριαι πλῆνται μεγάλοισι θυρέτροις·
τῶν δὲ Δίκη7 πολύποινος ἔχει κληῖδας ἀμοιϐούς.
[15] τὴν δὴ παρφάμεναι κοῦραι μαλακοῖσι λόγοισιν
πεῖσαν ἐπιφράδέως, ὥς σφιν βαλανωτὸν ὀχῆα
ἀπτερέως ὤσειε πυλέων8 ἄπο· ταὶ δὲ θυρέτρων
χάσμ΄ ἀχανὲς ποίησαν ἀναπτάμεναι πολυχάλκους
ἄξονας ἐν σύριγξιν ἀμοιϐαδὸν εἰλίξασαι
[20] γόμφοις καὶ περόνῃσιν ἀρηρότε9· τῇ ῥα δι΄ αὐτέων10
1 Diels-Kranz (ma non Diels nella sua originaria edizione del poema parmenideo, 1897) accolgono la correzione (Stein, 1867) del genitivo δαίμονος nel nominativo δαίμονες, di cui oggi si riconosce l’arbitrarietà.
2 Non si tratta di lacuna testuale, ma di testo corrotto: KATAPANTATH, trasmesso nei codici come κατὰ πάντ’ ἄτη (N), κατὰ πάντἀτη (L), κατὰ πάντα τη (E), κατὰ πάντα τῆ (codices deteriores). Diels legge: κατὰ πάντ’ ἄτη (partendo dall’errore di decodifica del codice N da parte di Mutschmann). Per il resto gli editori hanno fatto ricorso a congetture plausibili nel contesto: Cerri: κατὰ πάντ’ ἃ τ’ ἔῃ; Cordero: κατὰ πάν ταύτῃ; Coxon suggerisce κατὰ πάντ’ ἄτη. Per la traduzione si veda nota relativa.
3 χνοίῃσιν ἵ è correzione di Diels (1897) a χνοῖησινι del codice N, χνοιῆσιν (codici EL).
4 Scegliamo, seguendo Diels, di considerare Νύξ nome proprio della divinità, così come nel caso del successivo Ἦμαρ.
5 Il genitivo κρατερῶν dei codici è stato emendato in κρατῶν da Karsten e il κράτων da Diels.
6 La forma pronominale greca σφας è evoluzione dell’accusativo plurale di terza persona in uso nell’epica arcaica (σφε) all’interno della aedica ionica: la presenza della forma in Parmenide è considerata notevole da Passa (pp. 99-100).
7 La forma Díkh è degli editori moderni: nei codici δίκην.
8 La forma del genitivo πυλέων trasmessa dai codici potrebbe rivelare (Passa, p. 84) la familiarità di Parmenide con la dizione epica, manifestando in particolare la vicinanza a Esiodo. Si tratta comunque di un caso dubbio di metatesi quantitativa. Diels, nell’edizione del poema (1897), si interrogava (pp. 26-27) sull’opportunità di conservare πυλέων in vece di πυλῶν.
9 La forma duale ἀρηρότε è stata restaurata da Bergk e generalmente accolta dagli editori. Si distingue Cordero, che conserva la forma del participio plurale ἀρηρότα dei codici NE e deteriores.
10 Il genitivo in αὐτέων, accolto per lo più dagli editori, è conservato dal solo codice N; gli altri (LE e deteriores) riportano αὐτῶν. Sarebbe esemplare dello stile solenne (di ascendenza epica ionica) adottato da Parmenide. Diels, in verità, nell’edizione del poema (1897), optava per αὐτῶν, come oggi fa Cordero. Effettivamente si possono trovare precedenti omerici (Iliade XII.424) e esiodei (Scutum 237) nella 3
ἰθὺς ἔχον κοῦραι κατ΄ ἀμαξιτὸν11 ἅρμα καὶ ἵππους.
καί με θεὰ πρόφρων ὑπεδέξατο, χεῖρα δὲ χειρί
δεξιτερὴν ἕλεν, ὧδε δ΄ ἔπος φάτο καί με προσηύδα
ὦ κοῦρ΄ ἀθανάτοισι συνάορος12 ἡνιόχοισιν,
[25] ἵπποις θ’ αἵ13 σε φέρουσιν ἱκάνων ἡμέτερον δῶ,
χαῖρ΄, ἐπεὶ οὔτι σε Μοῖρα14 κακὴ προὔπεμπε νέεσθαι
τήνδ΄ ὁδόν ‐ ἦ γὰρ ἀπ΄ ἀνθρώπων ἐκτὸς πάτου ἐστίν ‐,
ἀλλὰ Θέμις15 τε Δίκη16 τε. χρεὼ17 δέ σε πάντα πυθέσθαι
ἠμέν Ἀληθείης18 εὐκυκλέος19 ἀτρεμὲς20 ἦτορ
formula ὑπὲρ αὐτέων: rimane comunque il sospetto (Passa, p. 85) che la lezione apparentemente superiore del codice N, copia di uno scriba doctus, rifletta un tentativo di “omerizzazione” del poema.
11 Si veda la successiva nota a θ’ αἵ del v. 20.
12 I codici di Sesto Empirico attestano unanimemente συνάορος, il cui vocalismo -ᾱορος appare fuori posto in un poema in esametri, composto da un autore ionico. In Omero è attestato συνήορος, preferito da Brandis (1813) e, nel nostro secolo, da Coxon (ἀθανάτῃσι συνήορος). Diels (1897) rifiutò la correzione, seguito dalla quasi totalità di editori successivi. La scelta di Diels è stata di recente difesa, su diverse basi interpretative, da Passa (pp. 132-137), che vede nel vocalismo -ᾱορος il segno di una incidenza della lirica corale nella letteratura arcaica e tardo-arcaica: συνάορος non è lezione dei codici attici del poema (che dovevano riportare συνήορος), ma probabilmente è la forma voluta dallo stesso Parmenide, che se ne appropriava appunto in quanto forma di successo nella poesia contemporanea.
13 I codici LE riportano ταί; N riproduce θ’ αἵ; i codices deteriores τε. Come osserva J. Palmer (Parmenides & Presocratic Philosophy, O.U.P., Oxford 2009, p. 378): «the postpositive connective is required here». La presenza di ταί nei codici si giustifica probabilmente per l’eco quasi letterale del v. 1, che può aver confuso i copisti: i codici, infatti, riproducono per B1.1 la stessa lezione data in B1.25 (Passa, p. 59). Passa fa tuttavia osservare come il passaggio da un originale ΘΑΙ (nella scriptio continua dei codici) al ταί della copia non sia facilmente spiegabile, mentre è più naturale ipotizzare che, meccanicamente, ΤΑΙ sia stato reso come ταί. È probabile che il copista di N abbia corretto (come ha fatto in altri punti) il testo che aveva di fronte (ΤΑΙ), allineando la lezione dei versi 1 e 25, ovvero rilevando una sintassi difettosa: introducendo l’aspirazione, l’originale ΤΑΙ sarebbe stato copiato appunto come θ’ αἵ. Secondo Passa, è probabile invece che la tradizione di Sesto Empirico riportasse ΤΑΙ, da rendere come τ’ ἄι, senza aspirazione: θ’ αἵ sarebbe forma normalizzata di τ’ ἄι (congiunzione τε seguita dal pronome relativo ἄι senza aspirazione), che conserverebbe traccia di psilosi, la mancanza di aspirazione, comune nel dialetto ionico in cui il poema fu originariamente composto. A conferma lo studioso italiano porta, sempre nel proemio, il caso di κατ΄ ἀμαξιτὸν del v. 20, conservato dai migliori codici di Sesto Empirico (NLE), in luogo della forma aspirata καθ΄ ἁμαξιτὸν, da attendersi. È possibile, dunque, che la redazione del proemio da cui discende la tradizione sestana fosse psilotica.
14 Scegliamo, a differenza degli altri editori, di considerare Μοῖρα nome proprio, coerentemente con il contesto divino.
15 La scelta della maiuscola è solo di alcuni editori.
16 Secondo M.E. Pellikaan-Engel, Hesiod and Parmenides. A new view on their cosmologies and on Parmenides’ Proem, Hakkert, Amsterdam 1974, p. 59, l’uso della minuscola in questo caso sarebbe legittimo, in quanto non ci troveremmo di fronte alla «nozione concreta» di Díkh incontrata al v. 14.
17 Un caso di metatesi: χρεώ forma epica da χρήω. L’epica conosce anche la forma più antica χρειώ (Passa, p. 77-9).
18 È interessante segnalare che in questo caso, nelle vecchie edizioni (Diels 1897; Diels-Kranz), il testo greco riportava il maiuscolo Ἀληθείη, evidentemente classificando Verità tra le rappresentazioni divine. In considerazione della posizione – che, seguendo Passa (p. 53), si potrebbe definire di «ipostasi divina» – riconosciutale anche in B2.4, reintroduciamo la maiuscola iniziale. La stessa scelta è stata compiuta da Gemelli Marciano (II, p. 12).
19 Degli ultimi versi del proemio abbiamo, oltre a quella (vv. 1-30) di Sesto Empirico, diverse citazioni: Simplicio cita 28b-32 nel commentario al De Coelo aristotelico; Diogene Laerzio cita 28b-30, mentre
4
5
[30] ἠδὲ βροτῶν δόξας, ταῖς οὐκ ἔνι πίστις ἀληθής.
ἀλλ΄ ἔμπης καὶ ταῦτα μαθήσεαι, ὡς τὰ δοκοῦντα21
χρῆν δοκίμως εἶναι διὰ παντὸς πάντα περ ὄντα22.
[vv. 1-30 Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 111; vv. 28b-32 Simplicio, In Aristotelis De Coelo 557-558; vv. 28b-30 Diogene Laerzio IX, 22; vv. 29-30 Plutarco, Adversus Colotem 1114 d-e; Clemente Alessandrino, Stromata V, 9 (II, 366); Proclo, In Platonis Timaeum I, 345; Sesto Empirico, Adversus Mathematicos VII, 114]
Plutarco, Clemente di Alessandria, Proclo e ancora Sesto (nella discussione) citano 29-30. Il testo di Simplicio riporta εὐκυκλέος («ben rotonda»), accolto da Diels in forza della qualità e interezza (presunte) del manoscritto di Simplicio. Il filologo tedesco è stato in passato seguito (tra gli altri) da Untersteiner, Guthrie, Tarán, Hölscher, e oggi da Cordero, Reale, Cerri, Ferrari, Tonelli, Palmer. I manoscritti ellenistici (quello di Plutarco, Sesto Empirico e Diogene Laerzio), tuttavia riportavano εὐπειθέος (che viene tradotto come «ben convincente»), che i più (tra gli altri Mansfeld, Mourelatos, Coxon, Conche, O’Brien, Gallop, Curd, Gemelli Marciano, Passa) preferiscono. Solo Proclo usa εὐφεγγέος («risplendente»), poco attendibile. Come in altri casi, si è rivelata decisiva la convinzione della affidabilità della redazione di Simplicio. Passa è certamente colui che, con maggiore acribia, ha argomentato, in tempi recenti, la propria opzione (pp. 55 ss.), tra l’altro all’interno di una ricostruzione delle tradizioni testuali del poema che mette in discussione proprio l’affidabilità della versione di Simplicio, che risentirebbe pesantemente di adattamenti platonizzanti (come quella di Proclo). Di diverso avviso Cerri (p. 184), per il quale Simplicio sarebbe invece molto attento alla conservazione del testo e del lessico parmenidei. Buone osservazioni a difesa della lezione εὐκυκλέος, si trovano ora in Palmer (op. cit. pp. 378-80).
20 Plutarco, Diogene Laerzio e Sesto Empirico (in math. 7.111) trasmettono ἀτρεκές («non torto»). Sulla lezione ἀτρεκές ha pesato la liquidazione di Diels (1897, pp. 54 ss.), che vi ha colto una trivializzazione, riconoscendo, invece, nell’alternativa ἀτρεμὲς un «predicato caratteristico dell’Ἐόν parmenideo». A contestare la liquidazione dielsiana, riproponendo la lezione ἀτρεκές, è stato di recente Passa (pp. 53 ss.), il quale ha dimostrato come l’aggettivo non implichi alcuna trivialità, vantando invece precedenti illustri in Omero e Pindaro. Come tutto il verso, anche ἀτρεκές sarebbe stato vittima di un rimaneggiamento secondario.
21 Passa (p. 121) segnala come la forma contratta δοκοῦντα sia molto probabilmente un atticismo nella tradizione del testo: egli esclude che δοκοῦντα (come anche φοροῦνται in B6.6) sia lezione autentica. La lezione δοκοῦντα sarebbe stata sostituita a δοκέοντα o δοκεῦντα.
22 La lezione dei codici DEF di Simplicio è πάντα περ ὄντα, che accogliamo, mentre il solo codice A riporta πάντα περῶντα («tutte le cose pervadendo»), per lo più preferito dagli editori, sulla scorta del precedente omerico (Iliade XXI.281 ss.). Ferrari (Il migliore dei mondi impossibili. Parmenide e il cosmo dei presocratici, Aracne, Roma 2010, p. 43) osserva che la forma περῶντα (da περάω) non ha riscontri nelle parti del poema che ci sono pervenute. Passa (p. 127-8), incerto sulla lezione, ritiene comunque che, accettando l’opzione περ ὄντα, si debba comunque correggere la forma attica del participio di εἰμί in quella ionica ἐόντα: in rapporto a un verbo fondamentale, nell’uso e nella frequenza, all’interno del poema, è plausibile che Parmenide «abbia voluto usare sempre la stessa forma, quella propria del suo dialetto».

qualche pagina in più per gli aspiranti , non dico filosofi, ma “seguaci di Parmenide”


 


 


Bibliografia supplementare:
H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Griechisch und Deutch, 3
voll.Weidemann, Berlin 1951-19526, tr. it. I Presocratici, a cura di G. Reale, Milano,
Bompiani 2006
J. Barnes, The Presocratic Philosophers, London 19822, pp. 155-230
G.S. Kirk, J.E. Raven, M. Schofield, Les philosophes présocratiques, tr. français de
H.A. De Weck sous la direction de D.J. O’Meara, Fribourg 1995, pp. 257-281
J. Barnes, Les penseurs préplatoniciens, in M. Canto-Sperber (a cura di),
Philosophie grecque, Paris 1997, pp. 31-41
B. Cassin, Parménide: Sur la nature ou sur l’étant, Parigi 1998.
Gli inizi dell’ontologia
L’iniziatore dell’ontologia (“studio dell’essere”) è Parmenide, nato ad Elea all’inizio
del V secolo, in sud Italia (l’odierna Ascea, vicino a Salerno). In questo corso
seguiremo il costituirsi della metafisica come scienza del’essere passo dopo passo,
senza darne un quadro generale e introduttivo. Tale quadro, in un’ottica squisitamente
aristotelica, può essere reperito nell’introduzione che si trova nella dispensa al primo
modulo della Metafisica.
Sia in filosofia, sia in politica, Parmenide esercitò una forte influenza. Plutarco
(Contro Colote, 1126 A-B), 28 A 12 DK (= Diels-Kranz, vedi sopra, bibliografia), ci
dice che:
«Parmenide ordinò la sua patria con leggi eccellenti al punto che, agli inizi, i
magistrati facevano giurare ogni anno i cittadini di restare fedeli alle leggi di
Parmenide».
Parmenide ha scritto un poema in versi esametri, probabilmente abbastanza corto
(200 versi circa), di cui ci rimangono parecchi frammenti, riportati principalmente da
Sesto Empirico (celebre filosofo scettico del II d.C.) e da Simplicio (commentatore
neoplatonico del VI secolo dopo Cristo), nei suoi commentari alla Fisica e al De
caelo di Aristotele. Simplicio ne riporta grandi estratti a causa, come dice egli stesso,
“della rarità del trattato”. In altre parole, Simplicio decide di riportare ampie parti del
trattato perché diviene sempre più difficile reperirlo.
Il poema si divide in tre parti: (1) un proemio allegorico, che presenta il viaggio di
Parmenide (quasi su modello omerico del viaggio di Ulisse), che viene condotto al
cospetto della ‘dea’ non meglio identificata, che rivela a Parmenide tutto ciò che si
deve sapere, cioè, in pratica, il pensiero filosofico di Parmenide; (2) una parte
“metafisica”, che descrive ‘la via della Verità’ e presenta il cuore della filosofia di
Parmenide; questa è la parte in cui, per la prima volta nella filosofia occidentale, viene
presentata “la via dell’essere”; (3) infine, una parte fisica, in cui Parmenide offre una
teoria della natura (come i suoi predecessori). Gli studiosi si sono chiesti perché mai
Parmenide, pur sconfessando questa indagine (che egli chiama “via dell’opinione”,
1
del tutto inaffidabile perché basata sui sensi), la persegua. Non è stata trovata una
risposta soddisfacente: quella di molti studiosi, che ritiene che Parmenide, pur
sconfessando la doxa come fallace opinione dei mortali, conceda comunque una certa
validità ai sensi (su cui si baserebbe la fisica di Parmenide) è una forzatura che si basa
su alcune affermazioni poco chiare di Parmenide, ignorandone invece altre molto più
decise ed evidenti.
(3) La via dell’opinione
Essa, di cui possediamo qualche frammento, conteneva delle osservazioni piuttosto
avanzate, soprattutto per quello che riguarda l’astronomia. Parmenide fu il primo
pensatore a sostenere che la terra ha forma sferica; sostenne che la luna era illuminata
dal sole; scoprì che la stella del mattino e la stella della sera non costituivano che un
solo corpo celeste, il pianeta Venere. Parlò del fatto che i mortali hanno distinto due
forme sensibili opposte, luce e notte, che si infiltrano in tutte le cose. Parmenide,
come mostrano altri frammenti, fece evidentemente un uso sistematico della luce e
della notte nella sua spiegazione del mondo. Nel modulo precedente, abbiamo visto
questo Parmenide physikos, e le critiche che di esso fa Aristotele nel libro Alpha della
Metafisica.
L’aspetto più interessante di questa parte della sua opera si trova nel giudizio che
Parmenide pronuncia su di essa, che è inequivocabilmente negativo:
testi:
28 B 1, vv. 28-32 DK (Simplicio Commentario al de caelo, 557, 25-558, 2) :
«Bisogna che tu tutto apprenda:
e il solido cuore della verità ben rotonda,
e le opinioni dei mortali, nelle quali non vi è vera certezza.
Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono
bisognava che fossero nella loro apparenza, essendo tutte in ogni senso».
In questo passo, collocato più o meno arbitrariamente da Diels-Kranz (gli autori della
raccolta dei frammenti dei Presocratici, raccolta che è praticamente diventata una
bibbia) alla fine de Proemio (vedi infra), è la dea che parla: per una ragione misteriosa
(anche dell’apparenza vi è un modo migliore di apparire. Per la spiegazione di questa
misteriosa ragione, vedi infra), Parmenide deve apprendere tutto: sia la ‘via della
Verità’ (di cui parleremo tra breve, la sola via vera e certa), sia le opinioni dei mortali,
che sono inaffidabili.Ora, le opinioni dei mortali sono inequivocabilmente quelle che
riguardano la Fisica:
28 B 8 50-59 DK (Simplicio, Commentario alla Fisica):
«Qui pongo termine al discorso che si accompagna
a certezza e al pensiero
intorno alla verità; da questo punto, le opinioni mortali
devi apprendere, ascoltando l’ordine ingannatore delle mie parole.
Infatti, essi stabilirono di dar nome a due forme
mentre non bisognava nominarne neanche una: in questo
si sono ingannati.
2
Le giudicarono opposte nelle loro struttura, e stabilirono
le caratteristiche
che li distinguono reciprocamente, da un lato l’etereo fuoco della fiamma
che è benigno e molto leggero, identico a se medesimo da ogni parte,
ma non identico all’altro; nondimeno anche quello
per se stesso opposto, notte oscura, di struttura densa e pesante».
Questo passo è davvero soprendente. Anche qui è la dea che parla, e spiega che,
conclusa la spiegazione della “via della verità” (che vedremo tra breve, ma che viene
descritta per prima), adesso passa alla descrizione di quella dell’opinione dei mortali,
via ingannatrice. E’ il passo di transizione tra la descrizione della “via della verità” e
“la via dell’opinione”. La via della verità è quella della certezza, che si distingue
chiaramente da quella dell’opinione, chiamata “ingannatrice” (la dea espone l’ordine
apparente dell’opinione). Quella dell’opinione è quella della fisica: vengono infatti
distinte le due forme sensibili della luce e del giorno, su cui si basa la Fisica descritta
da Parmenide (di cui fa menzione Aristotele). Da notare che egli afferma che «i
mortali hanno stabilito di dar nome due forme, mentre non bisognava nominarne
neppure una»; per Parmenide questa distinzione è del tutto arbitraria, addirittura falsa.
Eppure, su questa distinzione stabilisce la sua astronomia.
Molti lettori del poema, impressionati da questa dichiarazione di Parmenide, non ci
hanno creduto: perché mai Parmenide avrebbe dovuto raccontare una lunga storia
sulla natura, storia che include delle novità e delle nuove verità, se avesse veramente
creduto che si tratta di una storia falsa? Hanno per ciò avanzato un’ipotesi: forse
bisogna ammettere che la terza parte del poema presenta anch’essa il pensiero di
Parmenide, cioè una verità, sebbene più debole (solo verosimile) rispetto a quella, più
forte, della seconda parte (questa è l’interpretazione di molti studiosi italiani, come
Giovanni Reale, e stranieri). Tuttavia, tale interpretazione va decisamente rifiutata:
Parmenide ci assicura con decisione che la via dell’opinione è falsa, e ci spiega anche
perché egli l’ha comunque descritta:
28 B 8 DK, vv. 60-62 (si tratta della conclusione del passo che abbiamo appena
considerato):
«Questo ordinamento del mondo, in tutta la sua totale apparenza compiutamente ti
espongo,
così che nessuna convinzione dei mortali potrà superarti».
Anche se la spiegazione che ci fornisce non è pienamente soddisfacente, quello che
Parmenide dice è: nonostante il fatto che la via dell’opinione sia fallace, la dea istruirà
Parmenide fornendogli la versione più plausibile, affinché Parmenide non si faccia
superare da altri mortali, più fallaci ancora.
Inoltre, si deve sottolineare che la falsità della “via dell’opinione” deriva
direttamente dalle idee che Parmenide presenta nella parte centrale del suo poema, che
riguarda “la via della verità”. Ma prima di affrontare questa via, due parole sul
Proemio.
(1) Il proemio
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La primissima parte del trattato, il proemio, viene riportata da Sesto Empirico (VII
111)1, 28 B 1 DK :
[1] «Le cavalle che mi portano fin dove il mio desiderio
vuol giungere,
mi accompagnarono, dopo che mi ebbero condotto
e mi ebbero posto sulla via che dice molte cose,
che appartiene alla divinità e che porta per tutti i luoghi
l’uomo che sa.
Là fui portato. Infatti, là mi portarono accorte cavalle
[5] tirando il mio carro, e fanciulle indicavano la via.
L’asse dei mozzi mandava un sibilo acuto,
infiammandosi—in quanto era premuto da due rotanti
cerchi da una parte e dall’altra—quando
affrettavano il corso nell’accompagnarmi
le fanciulle figlie del Sole, dopo aver lasciato
le case della Notte,
[10] verso la luce, togliendosi con le mani i veli dal capo.
Là è la porta dei sentieri della Notte e del Giorno,
con ai due estremi un architrave e una soglia di pietra;
e la porta, eretta nell’etere, è rinchiusa da grandi battenti.
Di questi, Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi
che aprono e chiudono.
[15] Le fanciulle, allora, rivolgendole soavi parole
con accortezza la persuasero, affinché, per loro
la sbarra del chiavistello
senza indugiare togliesse dalla porta. E questa,
subito aprendosi
produsse una vasta apertura tra i battenti, facendo ruotare
nei cardini, in senso inverso, i bronzei assi
[20] fissati con chiodi e con borchie. Di là, subito
attraverso la porta
diritto per la strada maestra le fanciulle guidarono
carro e cavalle.
E la dea, di buon animo mi accolse, e con la sua mano
la mia mano destra
prese, e incominciò a parlare e mi disse così:
“o giovane, tu che, compagno di immortali guidatrici
[25] con le cavalle che ti portano giungi alla nostra dimora,
rallegrati, poiché non un’infausta sorte ti ha condotto
a percorrere
questo cammino—infatti esso è fuori dalla via battuta
dagli uomini—
ma legge divina e giustizia. Bisogna che tu tutto apprenda:
e il solido cuore della verità ben rotonda,
[30]


 

e le opinioni dei mortali, nelle quali non vi è vera certezza.
Eppure anche questo imparerai: come le cose che appaiono
1 Tranne gli ultimi cinque versi, che vengono da Simplicio, vedi supra.
4
bisognava che fossero nella loro apparenza, essendo tutte in ogni senso» (gli ultimi
cinque versi li abbiamo già commentati: vedi supra).
Dalla traduzione italiana (che ovviamente non può ricalcare i versi in greco), si può
già vedere il tenore del viaggio di Parmenide: allegorico, eroico (è stato paragonato al
viaggio di Ulisse), iniziatico. Quello che però è interessante considerare è che questo
proemio, seppur intessuto di allegorie e espressioni iniziatiche, è stato interpretato
dagli antichi, a cominciare da Sesto che riporta il passo, in chiave razionalista.
Sesto interpreta il viaggio di Parmenide come una progressiva liberazione dalle
pulsioni e dai sensi (buio) verso la ragione (luce). Vediamo alcuni elementi allegorici
‘tradotti’ nell’interpretazione razionalistica di Parmenide:
– le cavalle che lo portano = pulsioni irrazionali dell’anima
– la via che dice molte cose e che appartiene alla divinità = viaggio secondo la teoria
filosofica, che conduce alla conoscenza di tutte le cose
– le fanciulle che indicano la via = sono le sensazioni, delle quali presenta in modo
oscuro l’udito; infatti
– i cerchi rotanti = le orecchie, grazie a cui si riceve il “sibilo acuto”, cioè il suono
– le fanciulle figlie del sole = sono invece la vista, altra sensazione; esse infatti
abbandonano la dimora della notte andando verso la luce
– la giustizia, che punisce e che tiene le chiavi che aprono e chiudono = si tratta
dell’intelligenza, che rende solide le apprensioni delle cose.
Si tratta quindi di un viaggio verso la ragione, in cui le pulsioni e le sensazioni fanno
viaggiare Parmenide lungo il tragitto della filosofia. Nell’interpretazione di Sesto
Empirico di questo viaggio, non sembra che Parmenide sconfessi completamente i
sensi, i quali, anzi, sembrano funzionali al raggiungimento della ragione. Di fatto,
vedremo che la via dell’essere, cioè della verità, sembra in altri passi raggiungibile
solo mettendo da parte la via dei sensi.
Arrivato al cospetto della dea, Parmenide viene istruito su tutto, e innanzitutto sulla
Verità ben rotonda e solita.
(2) La via della verità
Testi:
Proclo (Commentario al Timeo I, 345), 28 B 2 DK :
«Ora, ti dirò—e tu ascolta e ricevi la mia parola—
quali sono le sole vie della ricerca alle quali si può pensare:
l’una che è, e che non è possibile che non sia
è il sentiero della persuasione, perché tien dietro
alla Verità;
l’altra che non è, e che è necessario che non sia.
E io ti dico che questo è un sentiero su cui nulla si apprende.
Infatti, non potresti conoscere ciò che non è
perché non è cosa accessibile».
Parmenide afferma che vi sono solamente due vie di ricerca concepibili (si noti che
la via dell’opinione non viene menzionata come via di ricerca possibile): per ora
5
diciamo genericamente che una è la via dell’essere, la sola percorribile; l’altra, quella
del non-essere, impercorribile; infatti, ciò che non è, è impensabile e inesprimibile.
A queste due vie se ne aggiunge una terza:
Simplicio, (Commentario alla Fisica, 117, 10-13), 28 B 6 DK:
«E’ necessario il dire e il pensare che l’ente è:
infatti, l’essere è,
e il non essere non è: e queste cose ti esorto a considerare.
E dunque da questa prima via di ricerca ti tengo lontano,
ma poi, anche da quella su cui i mortali che nulla sanno
vanno errando, uomini a due teste; infatti, è l’incertezza
che nei loro petti guida una dissennata mente.
Costoro sono trascinati,
sordi e ciechi ad un tempo, sbalorditi, razza di uomini
senza giudizio,
dai quali essere e non-essere sono e non sono la stessa cosa».
In questo passo vengono riprese le due vie, quella dell’essere e quella del non-essere;
se ne aggiunge una terza, quella dei mortali, che è una mescolanza di essere e nonessere.
Vedremo che è la via dell’Opinione, quella che qui abbiamo considerato per
prima; essa viene esclusa per ragioni di carattere logico.
Ora bisogna considerare con attenzione questi due frammenti, per cercare di
comprendere che cosa vuol dire Parmenide. Avverto già da ora che la cripticità e
l’oscurità dei suoi versi ha dato luogo a interpretazioni contrastanti.
(a) la prima cosa da osservare è che Parmenide parla di vie di ricerca: lo abbiamo
visto nel frammento 2 a proposito dell’ “è” e del “non-è”; e nel frammento 6 (dove la
dea dice a Parmenide di tenersi alla larga sia dalla via di ricerca sul “non-è”, sia da
quella dei mortali, che mescolano essere e non-essere).
Quando quindi si intraprende una ricerca, si possono concepire (vedi frammento 2)
due vie (o forse tre, secondo il frammento 6) lungo le quali dirigere i propri studi.
Però Parmenide ci assicura che non vi è che una sola via che può in verità essere
seguita. Quindi, se si fanno delle ricerche, ci si può dirigere solo verso la prima via.
Ma che cos’è una via di ricerca? Come caratterizzare in maniera più precisa le tre vie
che Parmenide ci prospetta, e perché, secondo Parmenide, siamo obbligati a seguire
solo la prima delle tre vie?
(b) il problema di base è che bisogna cercare di capire a che cosa Parmenide pensa
quando parla di essere e non essere. Riconsideriamo i frammenti in cui parla di
essere/non essere:
Frammento 2, 3-5:
«La prima via (che enuncia) che è, e che non è possibile non essere
è il cammino della persuasione, infatti segue la verità;
l’altra che non è, e che è necessario che non sia»
Frammento 6, 1:
«E’ necessario il dire e il pensare che l’ente è: infatti l’essere è
ma il niente ( = non ente) non è»
A ciò aggiungiamo l’inizio del frammento 8, che analizzeremo tra più tardi, e che
fornisce una serie di caratteristiche di questo non meglio identificato “essere”:
Frammento 8, 1-2:
6
« non resta che il racconto della via:
che è».
Parmenide prospetta quindi due vie (le sole concepibili), più una terza (quella dei
mortali), in realtà non concepibile, ma frutto di errore e mancanza di lucidità:
1- l’ente (o l’essere) è, e non è possibile che non sia;
2- il non-ente (o non-essere) non è, ed è necessario che non sia;
3- (via dei mortali, che possiamo estrarre da ciò che dice Parmenide): l’ente (o
l’essere) non è, il non-ente (o il non-essere) è. Si tratta della mescolanza essere-non
essere.
Diciamo grosso modo che tre sono le interpretazioni che sono state date dagli
interpreti e studiosi antichi e moderni:
i) (cf. per esempio interpretazione Reale): Parmenide parla dell’essere come puro
positivo scevro di ogni negatività e del non-essere come il puro negativo,
assolutamente contraddittorio rispetto all’essere. Questa interpretazione per ora non
risulta chiara; però essa, come vedremo più tardi, può fare riferimento ad un essere
puro e perfetto, al di là delle continue variazioni e cambiamenti che i physikoi hanno
variamente teorizzato: una sorta di vero cosmo, di vera realtà, al di là di quell’universo
apparente, percorso da essere e non essere, teorizzato dai physikoi.
ii) Parmenide sembra usare indifferentemente l’infinito (l’essere) e il participio (ciò
che è). Egli in realtà parla di ciò che è nel senso di ciò che esiste (questa è
un’interpratazione che trova adepti sia tra gli antichi, sia tra i contemporanei). Parlare
di tutto ciò che esiste significa individuare quei tratti caratteristici ed essenziali che
caratterizzano un’entità in quanto esistente (indipendentemente dai caratteri fisici, che
sono visti come contraddittori perché soggetti al divenire): in tal senso, Parmenide
sarebbe il precursore dell’ontologia aristotelica. Nel libro Gamma della Metafisica,
infatti, Aristotele come sappiamo afferma che “vi è una scienza dell’ente in quanto
ente, e delle sue proprietà essenziali”, proprietà che sono universali, cioè applicabili
ad ogni cosa che esiste. Per esempio: un cavallo, un cane, un gatto, possono essere
considerati in quanto cavallo, cane, gatto, e come tali, saranno oggetto della zoologia;
ma possono essere considerati anche in quanto enti, e come tali caratterizzati da
proprietà potremmo dire, logiche, oggetto dell’ontologia: un gatto è un’unità e non
una molteplicità, è identico a se stesso ma diverso da un cane, ecc.
iii) Una versione un po’ più caratterizzata è quella anglosassone (cf. per esempio
Barnes), secondo cui, cioè, ciò che è è ciò che esiste, ma limitatamente agli oggetti di
indagine, cioè agli oggetti scientifici, agli oggetti concepibili e oggetto di conoscenza
scientifica. Questa posizione è giustificata dall’insistenza, da parte di Parmenide, sulle
vie di ricerca, le sole concepibili.
Proviamo allora ad applicare quest’ultima teoria alle tre vie dei Parmenide.
Quando si intraprende una ricerca su un qualsiasi oggetto—le api, per esempio, o gli
astri—possiamo seguire la via della posizione di esistenza, la via del “che è”.
Possiamo cioè presupporre senza nessun tipo di giustificazione che gli oggetti delle
nostre ricerche esistono, che ci sono api e comete. Altrimenti possiamo seguire la
seconda via, evidentemente paradossale, quella del “che non è”, facendo l’ipotesi che
le api e le comete non esistono. Infine, possiamo prendere la via dei famosi “uomini a
due teste”, in cui supporremo che il soggetto esiste e non esiste, che ci sono e non ci
sono api e comete. Queste sono tutte le possibilità di ricerca individuate da
Parmenide.
La terza via, quelle dell’essere e del non essere, deve sembrare strana, addirittura
contraddittoria. Parmenide tuttavia indica che una tale possibilità esprima la
7
supposizione più generale che si fa prima di mettersi a fare ricerca seria; una
supposizione che, in particolare, era quella degli uomini che studiarono la natura per
primi. In che senso, questi ultimi hanno intrapreso la via dell’essere e del non essere?
Perché, come sappiamo, hanno considerato la natura come insieme di fenomeni in
continuo cambiamento, sia di proprietà, sia di nascita e morte. Per esempio, hanno
considerato le comete come esistenti ad aprile ma inesistenti in maggio (perché non si
mostrano). E’ dall’insieme delle osservazioni dei physikoi che Parmenide trae una
conseguenza non voluta e paradossale: i physikoi hanno creduto che i loro oggetti di
ricerca siano e non siano, esistano e non esistano.
Perché eliminare due delle tre vie di ricerca?
La seconda via, quella del non-essere, ci dice Parmenide, è un sentiero su cui nulla si
apprende, perché, ci dice Parmenide, non è possibile né conoscere né esprimere ciò
che non esiste (il non-ente). Inoltre, aggiunge Parmenide, ciò che non esiste non è
pensabile, perché, afferma Parmenide in un altro frammento riportato da Plotino
(Enneadi V, 1, 8), 28 B 3 DK:
«Infatti è lo stesso (= la stessa cosa) che può essere pensata ed esistere».
Cioè, si possono pensare solo gli esseri che esistono.
Se le cose stanno così, non si può che pensare agli esseri che esistono: di
conseguenza, le cose che non esistono non possono essere né ri-conosciute, e neppure
menzionate, perché, per ri-conoscere e menzionare una cosa, si deve prima pensare ad
essa. La via del non-essere, dunque, è esclusa: lungo questa via, non si può pensare,
né si possono fare delle ricerche. Essa è dunque impraticabile.
L’argomento di Parmenide è abbastanza chiaro, ma a prima vista risulta poco
convincente. Egli sostiene che noi non possiamo pensare che agli esseri esistenti: ma
noi possiamo fornire dei contro-esempi a ciò che dice Parmenide. Possiamo pensare
ad esseri fittizi, come Ulisse e la maga Circe; possiamo pensare ai liocorni, o ai cavalli
volanti. Questi esseri non esistono, ma noi possiamo pensarci. Quindi?
Ma, a dire il vero, questa obiezione è un po’ rapida: in generale, possiamo dire che le
finzioni pongono dei problemi che si riferiscono alle vie presentate da Parmenide solo
in modo relativo (per esempio: forse possiamo pensare ad esseri fittizi, ma in maniera
non chiara, non articolata, non scientifica. Non possiamo, cioè, intraprendere una
ricerca a loro riguardo). Quindi, per chiarire ciò che Parmenide vuol dire, è meglio
considerare un esempio2 estratto dalle scienze (ci ricordiamo, infatti, dell’insistenza di
Parmenide sulle vie di ricerca).
Qualche anno fa, degli astronomi americani hanno supposto, fondandosi su dei
fenomeni osservati, di aver scoperto, a fianco di Plutone, un altro pianeta, fino ad
allora sconosciuto. Hanno chiamato questo pianeta Persefone, e hanno fatto delle
congetture a proposito della sua grandezza, della sua velocità, della lunghezza del suo
anno, ecc. Più tardi hanno scoperto che Persefone non esiste e non è mai esistita. I
fenomeni osservati e che avevano condotto all’ipotesi dell’esistenza di un nuovo
pianeta avevano altre cause e altre spiegazioni. Ora, la questione parmenidea è la
seguente: prima di scoprire che Persefone non esistesse, gli astronomi hanno pensato
veramente a Persefone? Hanno parlato di Persefone? Forse no: non hanno pensato né
parlato di Persefone, precisamente perché Persefone non esiste. Hanno certamente
parlato come se questo pianeta esistesse: di fatto, però, non hanno parlato di
2 L’esempio si trova in J. Barnes, Les penseurs préplatoniciens cit., p. 35.
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Persefone, ma probabilmente dei fenomeni che hanno condotto ad ipotizzarne
l’esistenza.
Questo esempio non è evocato come prova del fatto che Parmenide ha ragione; ma
esso suggerisce che quello che noi chiamiamo il Principio di Parmenide (secondo cui
si può pensare solo a ciò che esiste) non è evidentemente falso. Si noti che alcuni
filosofi, antichi e moderni, hanno seguito Parmenide su questa via: per esempio,
Aristotele sostiene che l’oggetto di qualunque scienza deve esistere.
Eliminazione della terza via, quella dei mortali:
Parmenide sembra supporre che il suo principio, che aveva escluso la via del nonessere,
escluda nella stessa maniera anche la terza via:
Infatti, a proposito della terza via, egli dichiara:
Platone, (Sofista 237 a), 28 B 7 DK, versi 1-2:
«Infatti, questo non potrà mai imporsi: che siano le cose che non sono!
Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero».
La terza via, come abbiamo visto, ipotizza che gli oggetti di ricerca esistano e non
esistano: essa quindi suppone che tali oggetti non esistano, ma l’argomento opposto
alla seconda via ha mostrato che una tale supposizione è assurda.
Per valutare questo argomento, bisogna esaminare più in dettaglio quello che
possiamo chiamare il Principio di Parmenide.
Tale principio afferma:
(1) se un ricercatore x, pensa ad un oggetto y, bisogna che y esista.
Per dare un senso a questo principio, bisogna aggiungere delle precisazioni
temporali:
(1A) se x pensa, a un tempo t, a y, bisogna che y esista sempre
(1B) se x pensa, a un tempo t, a y, bisogna che y esista a un tempo t3
(1C) se x pensa, a un tempo t, a y, bisogna che y esista a un tempo qualunque.
Ora, per eliminare la via del non-essere, è sufficiente adottare la versione più debole
del principio, cioè (1C): se, per pensare ad un oggetto in questo momento (per
esempio, a Napoleone), è sufficiente che Napoleone sia esistito in un qualunque
momento (diciamo, duecento anni fa), è comunque necessario che Napoleone ad un
tempo sia esistito. Quindi, gli esseri che non sono mai esistiti non possono essere
pensati.
Invece, per eliminare la terza via (quella della mescolanza essere/non essere),
Parmenide è costretto ad adottare la via più forte, (1A), quella che dice che, per
pensare ora a qualcosa, questo qualcosa deve esistere sempre. Infatti, nelle altre due
versioni, l’esistenza eterna dell’oggetto non è richiesta, e quindi l’oggetto può esistere
(a un tempo t, o a un tempo qualunque) e non esistere (a un altro tempo).
Ma, accettare le versione di Parmenide, cioè (1A), significa rinunciare a una serie di
discipline, ed è per questo che i filosofi che hanno accettato il “principio di
Parmenide”, ne hanno accettato la versione debole, cioè (1C). Se infatti accettassimo
(1B), che pone come condizione l’esistenza dell’oggetto nel momento in cui il
ricercatore lo pensa, dovremmo rinunciare alla storia passata (i protagonisti, infatti,
sono morti); se invece accetto (1A), che pone come condizione l’esistenza eterna
dell’oggetto di pensiero, debbo rinunciare allo “studio di me stesso”, perché io esisto
3 Cioè, al tempo in cui x lo pensa.
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ora, ma non esiterò sempre. Gli studiosi, quindi, accettano (1C): in questo modo non
rinunciano alla “via dell’opinione”.
Parmenide, invece, sceglie (1A); così facendo riduce drasticamente la ricerca agli
esseri (o enti) eterni, che cioè esistono sempre.
Questioni di metodo
28 B 7, versi 2-6 (Sesto Empirico, M 7.111):
«Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero
né l’abitudine, nata dalle numerose esperienze,
su questa via ti forzi
a muovere l’occhio che non vede, l’orecchio che rimbomba
e la lingua, ma con la ragione (logos) giudica la prova molto discussa
che da me ti è stata data».
Parmenide ci presenta qui una riflessione di metodo. E’ grazie alla ragione che
dobbiamo scartare le due vie, quella del non-essere e quella dell’opinione. In
particolare, eliminando la terza, si è eliminata sprezzantemente l’esperienza empirica
(l’occhio che non vede, l’orecchio che rimbomba). Parmenide, o per meglio dire, la
dea, esorta chiaramente a evitare qualunque percorso empirico, e ad affidarsi
esclusivamente al giudizio della ragione (logos). Ma com’è possibile condurre
ricerche esclusivamente razionali sulle api o sulle comete? Non si può: e in effetti,
Parmenide limita la richerca agli esseri eterni.

Pensierino alla maestra

Oggi, a esequie già avvenute, ricevo la notizia: la mia maestra è morta. Aveva 94 anni. L’avevo sentita per telefono qualche mese fa, l’avevo incontrata qualche anno fa al centro e le avevo raccontato che lavoro faccio. Mi ha offerto un suo giudizio generoso e l’incoraggiamento positivo di sempre, di forte carica morale.
La ricordo come una delle figure chiave della mia formazione. Paziente, attenta, sapeva aspettare i tempi di ognuno. La prima frase che ha scritto in classe alla scuola elementare Aristide Gabelli di Perugia era “in autunno cadono le foglie”. La bella calligrafia ci guidava alla lavagna e la voce tremolante mi sembrava già allora carica di anni. Dolcissima ma capace di estrema fermezza, parlava sempre lentamente. Era molto autorevole. Ricordo che per insegnarci l’importanza della punteggiatura ci raccontava di un tale che era finito in prigione e che per un errore di punteggiatura veniva liberato. “Grazia impossibile, trattenerlo in prigione” era diventato “Grazia, impossibile trattenerlo in prigione”. Lo uso anche io con i miei studenti e anche a loro piace molto. Continua a leggere

jazz nell’anima

23 0ttobre 2012

Io il jazz ce l’ho nell’anima
ascoltarlo è rispondere ad una consonanza,
cercarlo una fatale necessità,
respirarlo una corsa come mille dita veloci
in lungo e in largo nello spazio pur ristretto
della tastiera del tuo pianoforte.

A Stefano Bollani

Credenti e non credenti: una sola comunità…

Da “La Repubblica” di oggi. Mi sembra interessante.

“Fondò la Cattedra dei non credenti contro le resistenze dei conservatori”
Il ricordo di Massimo Cacciari che fu coinvolto in quegli incontri su etica e fede

MILANO — «Non ci sono credenti e non credenti, ma solo pensanti e non pensanti. Il cardinale Carlo Maria Martini amava spesso citare, con ironia, questa frase di Norberto Bobbio. Era per lui la prima distinzione.
E però aggiungeva subito: “Poi tra i pensanti ci sono i pensanti credenti e quelli non credenti…”».
Il filosofo Massimo Cacciari ricorda con emozione la straordinaria stagione della “Cattedra dei non credenti”, che lo vide coinvolto in prima persona, tra gli organizzatori. Un’esperienza fortemente voluta dal cardinale Martini tra il 1987 e il 2002. In mezzo alle mille contestazioni, particolarmente dure, della parte più conservatrice della Chiesa, che non sopportava l’idea di veder salire in cattedra degli atei a dialogare di etica, fede, religione, cultura, giustizia, con dei cattolici. «Si trattava di una serie di incontri al centro dei quali c’era soprattutto il dialogo. Questo cercava Martini, più di ogni altra cosa».
Martini diceva che “ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente, che si interrogano a vicenda”.
«Appunto. Lui credeva in una fede dialogante. Viveva intensamente il dramma della fede. Al punto che chi gli stava vicino avvertiva fisicamente questo suo dramma interiore, umano».
Chi potrà portare avanti, nella Chiesa, lo stile di Martini, capace di coinvolgere i non credenti in grandi progetti comuni.
«Credo che il cardinale Gianfranco Ravasi, con la sua “Corte dei Gentili”, stia proprio portando avanti questo progetto culturale: creare uno spazio di incontro».
Il cardinale Martini ha polemizzato non poco, nella sua vita, con il mondo di Comunione e Liberazione.
«Le idee di Comunione e Liberazione sono l’opposto esatto di quelle di Martini. Cl è attratta dal potere, in tutte le sue forme. Il potere della Chiesa, il potere politico, il potere economico e quello degli affari. Niente a che vedere con la profonda spiritualità di Martini».
C’è un episodio che i milanesi non possono dimenticare. Quando, nell’84, le Brigate Rosse decisero di consegnare a Martini le loro armi.
«Si arresero all’autorità spirituale della città. Non erano vinti, ma convinti da Martini».

Per approfondire, vedi anche:
http://www.avvenire.it/Chiesa/Pagine/cacciari-apertura-ai-laici.aspx
Aggiungo anche la sua ultima intervista (un testamento spirituale):
http://www.corriere.it/cronache/12_settembre_02/le-parole-ultima-intervista_cdb2993e-f50b-11e1-9f30-3ee01883d8dd.shtml

 

Il cielo vuoto: scene di perdita della fede dalla letteratura

Per combinazione mi trovo a leggere in parallelo due libri in cui emerge la cultua ebraica. Uno è un romanzo magico surreale di Alejandro Jodorowsky, “Quando Teresa si arrabbiò con Dio”.L’altro è ” Il sistema periodico” di Primo Levi, un lungo racconto autobiografico incentrato sulle e degli elementi della materia  e sull’esperienza dello scrittore chimico, che  traccia la propria storia negli anni delle leggi razziali e della guerra.

In comune i due libri hanno la ricerca delle radici di famiglia e del popolo ebraico e il tema che qui mi interessa della perdita della fede. Sarebbe interessante rintracciare questo tema anche in altre opere letterarie o nel cinema, fare uno studio sulla mitografia di questa frattura della coscienza devota, sorella minore e trascurata della conversione, la conversione al contrario, la perdita della fede. Continua a leggere

Nel bosco la libertà

Cari Pezzi da Otto, le vacanze ci portano tempo di lettura e riflessione.
Riprendiamo a scrivere nel nostro blog di gruppo? Mi manca persino il pungiglione di Lucignolo.

Cosa raccontereste della vostra vita se vi fosse chiesto in un piccolo gruppo di fare un esempio di libertà? Continua a leggere